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Il busto D'Acerenza  

Pubblicato il 14 Giugno 2015

da: L'Imperatore Gliuliano L'Apostata di Gaetano Negri, 1902

editore: Ulrico Hoepli, Milano

 

 

 

Acerenza, diventata, in questi giorni, famosa in Italia pel disastro della frana che l'ha colpita, è una piccola città della provincia di Potenza, posta sulla vetta di un'isolata montagna che s'innalza alla confluenza del Bradano col Signone. Acerenza ha il privilegio singolare di possedere il busto colossale dell'imperatore Giuliano. E, ciò che è propriamente un colmo di stranezza, il busto dell'apostata imperiale è collocato su di un alto pinnacolo della sua cattedrale, come l'imagine del santo protettore della città. Le indicazioni precise intorno a quel busto furono date, credo, la prima volta da Francesco Lenormant1. Acerenza pare fosse una delle poche città che cordialmente parteggiavano per la restaurazione politeista tentata da Giuliano. Il giovane imperatore vi doveva essere grandemente onorato. Un frammento d'iscrizione che si legge su di una pietra impiegata nella costruzione della cattedrale e che doveva appartenere al piedestallo di una statua, dice: «Al riparatore del mondo romano, al nostro Signore, Claudio Giuliano Augusto, principe eterno». Ed un secondo frammento di un'altra iscrizione più monumentale, portante alcune lettere del nome di Giuliano, fu letta dal Lenormant sulla soglia di una delle cappelle della cattedrale. È dunque assai probabile che il busto in marmo d'imperatore romano che adorna il vertice della cattedrale stessa rappresenti appunto Giuliano, ed abbia appartenuto ad una statua colossale che gli abitanti d'Acerenza avevano innalzata in suo onore. La probabilità è accresciuta dalla circostanza che facilmente si può spiegare il bizzarro equivoco pel quale l'apostata maledetto si è trasformato in un santo venerato. Il patrono della cattedrale d'Acerenza è San Canio, vescovo di Juliana, in Africa, il cui corpo, si narra, fu portato in Lucania dai Cristiani che fuggivano dall'Africa cacciati dai Mussulmani.

«Ora — dice il Lenormant — il rapporto delle proporzioni rispettive sembra indicare che il frammento d'iscrizione in onore di Giuliano, formante la soglia di una delle cappelle, proviene dal piedestallo della statua. La probabilità è accresciuta dalla circostanza che facilmente si può spiegare il bizzarro equivoco pel quale l'apostata maledetto si è trasformato in un santo venerato. Il patrono della cattedrale d'Acerenza è San Canio, vescovo di Juliana, in Africa, il cui corpo, si narra, fu portato in Lucania dai Cristiani che fuggivano dall'Africa cacciati dai Mussulmani. «Ora — dice il Lenormant — il rapporto delle proporzioni rispettive sembra indicare che il frammento d'iscrizione in onore di Giuliano, formante la soglia di una delle cappelle, proviene dal piedestallo della statua. Quel frammento presenta solamente le lettere VLIAN. Se, come è probabile, i due avanzi furono estratti dal suolo nel medesimo tempo, i preti d'Acerenza, fra il 1090 ed il 1100, più preoccupati di San Canio che dell'imperatore Giuliano, avranno completata l'iscrizione mutilata in quella di Julianensis episcopus, e l'Apostata fu d'un colpo trasformato in martire ed in protettore celeste». Questo ritratto di Giuliano, già tanto interessante per la sua storia curiosa, lo è anche pel valore intrinseco dell'opera, per l'espressione intensa di vita e per una certa grandiosità potente che c'è nell'insieme. Pare anzi strano che, in un'epoca in cui l'arte era in piena decadenza, ci fosse uno scultore capace di plasmare una figura con sì semplice vigoria. Lo scultore ha voluto rappresentare non il pensatore, ma il soldato. Il capo è cinto da un serto d'alloro, e il corpo è coperto dal paludamento militare. Se questo è Giuliano noi dobbiamo vedervi Giuliano vittorioso, alla testa delle sue legioni.

Dissi, se questo è Giuliano, perchè, malgrado le indicazioni affermative del Lenormant, che hanno avuto testè la conferma di un insigne archeologo, Salomone Reinach, in una comunicazione da lui letta all'Istituto di Francia, qualche dubbio non può a meno di sorgermi nell'animo. In primo luogo, mi pare non possa esservi alcuno che abbia qualche dimestichezza con gli scritti di Giuliano, il quale non provi un'impressione di stupore nel vedersi davanti questo ritratto. Ma come? Il pensatore, lo scrittore che aveva passata tutta la sua giovinezza sui libri, il filosofo ed il teologo sottile ed inquieto, lo studioso infaticato che, anche in mezzo alle cure della guerra, si alzava, nel cuor della notte, per leggere i suoi autori e comporre i suoi trattati, il sognatore utopistico che non pensava che alla rivoluzione morale del mondo, alla creazione di un Stato religioso di cui egli sarebbe il pontefice massimo, avrebbe avuto i lineamenti e l'aspetto di questo Romano d'antico stampo, di questo soldato risoluto, quadrato e robusto nella mente come nel corpo, di quest'uomo a cui, certo, possiamo attribuir la forza della volontà ed il vigore dell'indole, ma a cui parrebbe del tutto estranea quella mescolanza di idealità e di pedanteria che era così caratteristica dello spirito di Giuliano? Se questo è il suo ritratto genuino, v'era tutta una parte di lui che non traspariva nel suo volto, che rimaneva nascosta nei penetrali più segreti dell'anima. In questa effigie potrei riconoscere l'eroe di Strasburgo, il duce audace del passaggio del Tigri, ma invano vi cerco lo scrittore modesto ed arguto della lettera a Temistio, il moralista severo del frammento sui doveri del sacerdozio, il poeta pungente, ingegnoso e dotto del Misobarba.

Ma confrontiamo l'imagine d'Acerenza coi ritratti scritti che ci hanno lasciato Gregorio di Nazianzo ed Ammiano Marcellino. Come vedranno i lettori che vorranno addentrarsi in questo mio libro, il profilo tracciato da Gregorio non è in alcun modo conciliabile con questo busto di vigoroso soldato. Gregorio ci presenta un giovane convulso, una specie di epilettico dallo sguardo vagabondo, dal collo dondolante, dai lineamenti mobilissimi, dall'atteggiamento incerto ed instabile, una figura interessante, che però non ha nemmeno il più lieve vestigio di quella maestà fiera, ma posata e sicura, che splende sul volto dell'eroe d'Acerenza. È vero che Gregorio era ispirato dall'odio contro Giuliano così che egli ne ha disegnato il ritratto coll'intenzione di farne la caricatura. Ma non bisogna, però, dimenticare che Gregorio ha convissuto lunghi mesi con Giuliano sui banchi della medesima scuola; pertanto, data anche l'intenzione di farne la caricatura, ci doveva pur essere, nella caricatura, un fondo di verità. Se non che, si potrebbe forse osservare che Gregorio ha conosciuto Giuliano giovanissimo, prima che la dura vita di soldato, da lui condotta in Gallia, lo avesse invigorito e trasformato in un uomo d'azione, e non è da ritenersi impossibile una corrispondente trasformazione della sua figura.

D'importanza capitale è la descrizione d'Ammiano che ha accompagnato Giuliano in Persia e che, quindi, ce lo presenta quale era negli ultimi tempi della sua vita. — Mediocris erat statura, capillis perquam pexis et mollibus, hirsuta barba in acutum desinente vestitus, venustate oculorum micantium flagrans, qui mentis ejus argutias indicabant, superciliis decoris et naso rectissimo, ore paulo majore, labro inferiore demisso, opima et incurva cervice, umeris vastis et latis, ab ipso capite usque unguium summitates liniamentorum recta compage. — Questa descrizione d'Ammiano corrisponde, in gran parte, al ritratto d'Acerenza. Abbiamo i capelli lanosi e molli, abbiamo gli occhi singolarmente vivaci ed espressivi, il naso diritto. Ma non mi pare sufficientemente indicata, almeno dalla fotografia che qui è riprodotta, la sporgenza del labbro inferiore; c'è la robustezza ma non la curvatura del collo, e manca la caratteristica barba da caprone, accennata da Ammiano, la quale, come vedremo a suo luogo, è un personaggio importante del Misobarba di Giuliano stesso. Si risponde a quest'ultima difficoltà, affermando che Giuliano ha lasciato crescere la barba, solo dopo il suo ingresso a Costantinopoli, tanto è vero che, come sappiamo da Ammiano, nei primi giorni della sua dimora in quella città, egli faceva ancora chiamare un barbiere ad demendum capillum. Ora, se il ritratto, come è probabile, è stato eseguito a Costantinopoli, lo scultore non avrà visto nel suo modello che una barba incipiente, la quale, pertanto, non poteva ancora aver acquistata la forma puntuta. La risposta all'obbiezione sarebbe certo ingegnosa, ma io vorrei osservare, in primo luogo, che Ammiano dice che il tonsor venne ad demendum capillum non già ad demendam barbam. Ora se è vero che sotto l'espressione generica di capillum può intendersi anche la barba, non è men vero che Ammiano stesso, nella descrizione di Giuliano, distingue nettamente le due cose ed i due nomi. In secondo luogo, senza entrare, a proposito di Giuliano, in una discussione per la quale bisognerebbe appellarsi alla competenza di un barbiere, io vorrei dire che la barba del ritratto d'Acerenza copre le guancie, ma lascia quasi scoperto il mento, e mi par quindi assai difficile che quella barba potesse, in poco tempo, diventar puntuta. Un'ultima difficoltà che mi si presenta è che Giuliano era poco più di trentenne, quando entrava imperatore a Costantinopoli. Ora, al personaggio, rappresentato dal busto d'Acerenza, mi pare si possa, senza fargli torto, attribuire abbondantemente una diecina d'anni di più.

Malgrado questi dubbi che mi son sorti alla vista della fotografia del ritratto, io non esito ad ornarne questo povero mio libro. Anche nell'ipotesi che non sia un ritratto preso dal vero a Costantinopoli, ma un lavoro fatto in Italia, con indicazioni non tutte esatte, la genialità, la vita che vibra in esso lo rendono singolarmente interessante. Noi vediamo in questo lavoro, in cui si sente una mano appassionata, come il riflesso dell'ammirazione e della simpatia che l'audace restauratore dell'Ellenismo aveva destate ai primi passi della sua carriera imperiale.

E poi quale esempio parlante della profonda ironia delle cose umane! L'imagine del più grande nemico che abbia avuto il Cristianesimo, trasformata in quella di un santo, accoglie e trasmette al cielo le preghiere di quei Cristiani ch'egli tanto disprezzava ed aborriva! Io cercava un motto che, posto in fronte al libro, riassumesse il significato della storia di Giuliano. Il busto d'Acerenza è il più eloquente dei motti!

Salomone Reinach ha testè pubblicato, nella Revue Archéologique, una dotta ed interessante memoria sul ritratto di Giuliano. Nella prima parte di quella memoria egli mette in chiaro l'errore pel quale le due statue esistenti a Parigi, l'una al Museo delle Terme, l'altra al Museo del Louvre, rappresentanti un personaggio togato e barbuto, si credettero il ritratto di Giuliano, mentre lo devono essere di qualche retore o di qualche filosofo. Nella seconda l'insigne archeologo discorre del busto d'Acerenza, ed insiste sull'autenticità assoluta del ritratto, cercando anche di dissipare alcuni dei dubbi che io ho sollevato. Però, anche ammesso come tolte redicalmente le difficoltà dell'espressione del busto, in cui è nascosta tanta parte dell'indole di Giuliano, e l'altra dell'età provetta dell'uomo che vi è rappresentato, resta pur sempre la difficoltà che la barba non ha la forma caratteristica della barba da caprone, ed è già così abbondante e cresciuta sulle guance, e così scarsa sul mento, da rendere molto difficile un cambiamento di disposizione, nel breve tempo che si frappone fra la data del ritratto e l'ingresso di Giuliano in Antiochia.

La memoria del Reinach è ornata da tre grandi e belle fotografie prese dal vero in Acerenza. Quella che dà la testa di profilo è di una bellezza propriamente singolare. La perfezione dei lineamenti, la profondità dello sguardo, l'impostatura del collo sulle spalle, l'equilibrio di tutta la compagine, se davvero appartenevano al Giuliano reale, dovevan far di lui, anche fisicamente, il tipo ideale dell'eroe. Si capisce subito, guardando questa bella testa, la simpatia che l'imperatrice Eusebia ha sentito per lui. Ma abbiam proprio, qui, Giuliano? O piuttosto, l'idealizzazione della sua figura, fatta da uno scultore geniale che plasmava l'imagine di un uomo che non aveva visto, che conosceva per la descrizione altrui, e che egli ricreava seguendo, più che altro, la visione della sua mente? Io devo dire che l'interessante dissertazione di Salomone Reinach, per quanto erudita, non mi ha completamente liberato dall'esitanza di cui fui colto fin dal primo momento che ho posto gli occhi sul busto d'Acerenza e di cui ho dato ragione nel mio breve discorso.

 

Luglio 1901.

 

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